Le immagini che giungono dagli stati brasiliani di Rondônia e Pará non lasciano spazio all’immaginazione. La foresta amazzonica brucia senza sosta, una situazione già nota alle associazioni ambientaliste locali – secondo Greenpeace Brasile, tra gennaio ed agosto 2019 il numero di incendi è aumentato del 145% rispetto allo stesso periodo del 2018 – e che sembra essere precipitata nelle ultime settimane con oltre 2.500 roghi attivi in diverse zone. Si tratta di incendi dolosi che vengono appiccati su materiale ligneo precedentemente tagliato, con il fine di estendere campi agricoli e pascoli. Una pratica, quella della deforestazione, che minaccia pesantemente il più grande polmone verde del nostro Pianeta: grazie all’altissima densità di vegetazione e alla distribuzione delle foreste lungo la fascia equatoriale, dove l’irraggiamento del sole è massimo, la Foresta Amazzonica è uno dei principali consumatori di anidride carbonica (CO2) atmosferica che viene trasformata in ossigeno. A causa dei numerosi incendi e della riduzione dell’area vegetata, secondo il servizio europeo Copernicus, l’area avrebbe rilasciato più CO2 dei già tristemente famosi incendi che hanno interessato nei mesi scorsi la tundra siberiana, questi innescati dai temporali e da un’eccezionale ondata di siccità. Se incendi e deforestazione dovessero continuare al ritmo attuale, l’area amazzonica potrebbe rapidamente trasformarsi in un’enorme savana e le conseguenze in termini climatici si farebbero sentire su scala planetaria. Una pessima notizia in tema di riscaldamento globale. Se da un lato le politiche del Presidente del Brasile Jair Bolsonaro hanno incoraggiato sia nelle parole che nei fatti la distruzione del patrimonio forestale a scopi agricoli e produttivi (ad esempio anche tagliando i fondi del monitoraggio e dei sistemi di protezione ambientale), dall’altro la politica internazionale è stata finora a guardare e soltanto il raggiungimento di un tale livello critico ha innescato la feroce reazione dell’opinione pubblica e dei governi per salvare un patrimonio naturale così importante per la sopravvivenza dell’umanità. Possiamo anche noi fare qualcosa nel nostro piccolo? Certamente possiamo sostenere con donazioni e aiuti le numerose associazioni che operano sul territorio per salvaguardare la foresta, gli animali e le popolazioni indigene (es. Insituto Terra), oppure ancora possiamo evitare di contribuire indirettamente allo sfruttamento di una risorsa così preziosa attraverso il consumo responsabile delle risorse. Lo sfruttamento del suolo amazzonico infatti è legato alla crescita della domanda di esportazione di alimenti come soia e carne o di risorse preziose come i minerali. Per esempio, l’accordo commerciale UE-Mercosur, per il quale l’Europa importa circa 100.000 tonnellate di carne bovina all’anno dai paesi sudamericani, è al momento al vaglio del Parlamento Europeo: si teme infatti la concorrenza sleale nei confronti delle carni europee ed in particolare italiane (l’interrogazione è stata presentata dalla Coldiretti). Vigilare dunque sulla provenienza degli alimenti, evitando di comprare carni o altri cibi di derivazione estera ed in particolare provenienti dai paesi amazzonici, può rappresentare un piccolo gesto per contribuire allo scempio messo in atto da una politica fortemente consumistica e molto poco sostenibile. In quest’ottica inoltre, si può sempre optare per i prodotti a filiera corta, una scelta che incentiva i produttori locali, che aiuta l’ambiente e che migliora la qualità del cibo consumato. Attenzione però ovviamente alla tipologia di mangimi utilizzati per alimentare gli animali da allevamento: alcuni infatti possono essere costituiti da soia o altri prodotti provenienti dal Sud America e dunque possibilmente legati alla distruzione delle foreste primarie. Anche in questo caso, parafrasando una famosa frase, il piccolo gesto di un essere umano può rappresentare un grande passo per salvaguardare il futuro dell’umanità da possibili catastrofi.
ph: Luca Parmisano